jazz

Préliminaires – una NON recensione

In teoria a voler recensire un disco uno dovrebbe essere imparziale, obiettivo. Un critico è oggettivo e distaccato, o almeno così me lo sono sempre immaginato. Ma non sono un critico, fortunatamente, e perciò non sono tenuto ad obiettività né distacco.. e del resto non credo mi riuscirebbe di metterceli, in questo caso.

La storia è questa: nel Maggio del 2009 Iggy Pop se ne esce con un album, Préliminaires, che la stampa specializzata da subito definisce Jazz. Orrore amici: la mia anima purista & integralista di vero punk-rocker (seppure sprovvisto di cresta) ne rimanda a tempo indeterminato l’ascolto, paventando il naufragio di un mito e la conseguente frattura cardiaca. Circa un anno dopo però (Luglio 2010) il Fato Beffardo porta il vostro affezionatissimo, munito di biglietto regalo, al di lui concerto di Azzano Decimo. Deliziosa delizia e incanto, avrebbe detto il buon Alex: Iggy, prevedibilmente all’altezza del compito, produce più di due ore di inimmaginabile rock abrasivo provocando una catarsi collettiva. Follia, paura e delirio: esco dal palazzetto sordo, seminudo, ubriaco fradicio e con l’aria di chi ha attraversato gli inferi ma medita vagamente di trasferircisi.

Ed eccoci al punto. Qualche mese dopo, rinfrancato da quanto vissuto, trovo finalmente il coraggio di inserire il famoso album nel lettore. E ora, ad ascolto completato e a mente quasi fredda, mi trovo a mediare sentimenti contrastanti.

Ahimè, la verità pura e semplice è che quando un uomo sopravvive alla propria icona deve fare una scelta: Il demone Iggy Pop, Il fauno capace di sollevare una marea isterica in un palazzetto, è certamente immortale e invincibile, ma James Newell Osterberg Jr., l’uomo non più giovane, no. Mi spiego: succede che, incredibile a dirsi, anche del rock uno può spaccarsi le palle. Succede che magari una sera sali sul palco col naso impolverato e i tuoi vent’anni artificiali e ti rendi conto che, beh, qui non si tratta più di farcela o meno. Succede anche che nell’età della pensione un tipo si guardi allo specchio e capisca che vivere sempre lo stesso giorno non è vivere anche se, cazzo, è stato un giorno da leoni, e decida di fare qualcosa di diverso.

Così, a cavallo tra il 2008 e il 2009 Iggy legge “La possibilità di un’isola” di Michel Houellebecq. Inizia a comporre pensando al libro, senza soffermarsi troppo su esigenze di produzione o di coerenza; e produce dodici tracce che più che il libro in sè, a mio parere, descrivono ciò che non ha paura di essere oggi: un’accozzaglia intelleggibile di stili e sensazioni, un saltimbanco, un viaggiatore. Un uomo che si, cristo, gode dello status di semidio del punk, ma che non vuole accomodarcisi dentro per sempre ed evidentemente crede di poter essere anche altro.

Il disco è minimale ma prodotto con accortezza, e nella sua assurda eterogeneità mette in scena una serie di metamorfosi che lasciano incastrati tra sbigottimento e ilarità. Non soltanto i puristi punk (che ahiloro avranno la tentazione di darsi la morte) ma chiunque lo ascolti per la prima volta salterà sulla sedia ascoltandolo recitare versi di Prévert in francese in una cover di Les Feuilles Mortes per poi passare con nonchalance a fare il verso a Tom Waits, o a misurarsi in una ballata country blues alla Johnny Cash.

Inascoltabile, ma fantastico: sembra quasi un catalogo in cui Iggy elenchi cosa potrebbe diventare, se solo lo volesse. E pur stringendo forte al petto i miei dischi degli Stooges con un puerile lacrimone sulla guancia, mi ritrovo ad ascoltarlo con un sorriso idiota sulle labbra, in auto, solo per il puro voyeuristico piacere della curiosità. Come si fa a giudicare un ventenne di sessantatrè anni?

K.S.